TRAMA:
Un padre e la sua unica figlia, di undici anni, si nascondono tra boschi e case disabitate, dopo che un virus ha sterminato buona parte della popolazione femminile. La giovanissima Rag è costretta ad un vagabondaggio continuo e a fingersi maschio ogni volta che non può evitare il contatto con altri esseri umani, tutti uomini, resi brutali e senza scrupoli dalla mancanza di femmine.
Casey Affleck debutta nella regia di finzione con piccolo film, teso come una corda, che sfiora temi imponenti senza mai eccedere la misura che si è dato: una misura intima ma non per questo modesta.
Con l'eco nelle orecchie di precedessori importanti, come The Road o I figli degli uomini, ma anche di tanti titoli del sotto-genere fantascientifico del contagio, Light of my Life è un disaster movie senza le rovine di palazzi sgretolati, ma ambientato tra le macerie morali dell'umanità; un film di genere che dal genere resta distaccato, preferendo la libertà del modello indipendente.
Affleck stesso interpreta un padre che incarna anche l'eredità materna, costruendo un cordone ombelicale fatto di storie, che inventa per la figlia ogni sera dentro una tenda-utero. In questo ventre da campeggio, col solo strumento delle parole (tutte quelle che non ha proferito in Manchester by the Sea, vien da dire) le offre il mondo e la Storia che non può avere di prima mano, ricostruendone i miti di fondazione per adattarli al loro universo a due. Grande spazio è dato alla recitazione, verbale e non verbale, e alla natura, in una dimensione insieme estremamente realistica e primordiale, fatta di istinti e ricordi, desideri e soprattutto paure. Perché Rag sta crescendo e con lei il suo problema: ce lo dice l'inquadratura in cui si ribaltano, nel solito nido, prima del sonno, le posizioni dei due protagonisti, e lo ribadisce l'accenno alla pubertà imminente, che arriva poi sotto forma di intelligente metafora.
Un film essenziale e commovente, come il vincolo che mette in scena, che mira più allo stomaco che al cervello, e ci fa fare la conoscenza di Anna Pniowsky in una performance di grande intensità, all'insegna di silenzi eloquenti e un uso parco e acuto della parola, quasi a tracciare un'eredità filmografica anziché biografica sulla linea di Affleck. E anche un film-manifesto, per un'epoca che di femminicidi ha cominciato a parlare diffusamente, su scala globale, ma per i quali non possiede ancora un antidoto.